LION, di Garth Davis
2016, 120 min
India centrale, fine anni ottanta. All’età di quattro anni, Saroo, secondogenito di una famiglia molto povera, chiede di seguire suo fratello maggiore Guddu al lavoro. In una stazione non distante dal loro villaggio natale, Saroo viene lasciato per qualche ora a dormire su una panchina ma al risveglio non trova alcuno attorno a sé. Alla ricerca del fratello, il bambino sale erroneamente su un treno deserto che non fa sosta e che lo conduce a Calcutta, città lontana 1600 chilometri. Sperduto nella caotica metropoli, non parlando la locale lingua Bengali, Saroo sopravvive per strada. Ospitato da gente di malaffare, riesce a fuggire, per poi essere notato da un impiegato che parla la sua lingua, l’Hindi, e che lo porta ad un commissariato perché, attraverso la pubblicazione della sua foto sui giornali, qualcuno possa riconoscerlo. Saroo è uno delle migliaia di bambini abbandonati che vagano per la città, sicché non resta che la strada dell’orfanotrofio, dove vengono trattati assai rudemente. Giunge un giorno un’assistente sociale che si è interessata al suo caso e ha trovato una coppia di australiani disposti ad adottarlo. Così nel 1987 Saroo parte alla volta di Hobart, in Tasmania, dove cresce e diventa un uomo adulto. All’età di 25 anni Saroo è uno studente universitario a Melbourne, con numerosi amici ed affetti, anche indiani, ma non ha dimenticato le sue radici e la sua famiglia, per la quale prova un senso di colpa a causa della sua sparizione. Il giovane passa le sue serate su Google Earth alla disperata ricerca del suo villaggio natale, basandosi sui pochi ricordi, nella flebile speranza di ritrovare la madre e i fratelli.