Gangster&co.
Gang – Thieves Like Us di Robert Altman (1974; 123′); v.o.sott.it
Titolo originale: Thieves Like Us
Regia: Robert Altman
Sceneggiatura: Robert Altman, Joan Tewkesbury, Calder Willingham
Fotografia: Jean Boffety
Montaggio: Lou Lombardo
Scenografia: Marty Wunderlich
Suono: Don Matthews
Interpreti: Keith Carradine, Shelley Duvall, John Schuck, Bert Remsen, Louise Fletcher, Ann
Latham, Tom Skerritt, Al Scott, John Roper, Mary Waits, Rodney Lee, William Watters, Joan
Tewkesbury, Eleanor Matthews, Pam Warner, Suzanne Majure, Walter Cooper, Lloyd Jones,
Matthew R. Altman, Sim Dulaney
Produzione: Robert Altman per George Litto Productions
Durata: 123 minuti
Prima proiezione: 11 febbraio 1974
Sinossi:
Mississippi, 1936. Nonostante sia molto giovane Bowie è già un ospite delle patrie galere,
colpevole d’omicidio. Assieme ai suoi compagni di “catene”, T-Dub e Chicamaw, riesce però a
evadere: con loro riprende immediatamente l’attività criminale, dandosi anima e corpo alle rapine.
Il rifugio dei tre è la casa in cui vivono la cognata di T-Dub e le sue figlie, per la maggiore delle
quali T-Dub prova un’attrazione morbosa. Quando viene ferito in un incidente d’auto, Bowie viene
accudito dalla figlia di un benzinaio, Keechie, con la quale inizia una relazione…
Gangster Story di Arthur Penn ha la sua première nell’agosto del 1967. Neanche sette anni più tardi,
nel febbraio del 1974, tutto sembra già volto inesorabilmente verso la sconfitta, la perdita
dell’ideale, la disillusione. Il merito di questa nuova tinteggiatura nell’affresco della Grande
Depressione va distribuito tra molti registi, dal John Milius di Dillinger al mirabile Terrence Malick
di La rabbia giovane, ma nessuno con ogni probabilità riesce a teorizzarlo quanto Robert Altman.
Gang, traduzione un po’ semplicistica dell’originale Thieves Like Us (che riprende il titolo del
romanzo di Edward Anderson, morto nel 1969, già trasposto sullo schermo nel 1948 da Nicholas
Ray ne La donna del bandito), procede in un’asettica, chirurgica e millimetrica dissezione del
genere degli “innamorati criminali”, sovvertendo ogni regola e ribaltando continuamente, e con il
consueto spirito beffardo e anarcoide di Altman, la prospettiva considerata consona. L’operazione
condotta in porto dal regista di M.A.S.H. e Anche gli uccelli uccidono si muove in una triplice
direzione. Le prime due riguardano la volontà di “smentire” il passato consolidato, sia quello
letterario – il romanzo di Anderson – che cinematografico, vale a dire il gangster-movie classico à la
Ray. Così, mentre l’accento ne La donna del bandito è messo sulla storia d’amore tra Bowie e
Keechie alimentando l’idea dei giovani e maledetti la cui unione può scardinare le regole della
società, in Gang l’aspetto romantico viene continuamente svilito. Non c’è adesione alla relazione tra
i due, che per di più occupa solo una parte residuale dell’intero impianto scenico: Keechie (Shelley
Duvall) dopotutto scampa al barbaro destino riservato a Bowie (Keith Carradine) solo per il suo
desiderio insano di andare a comprare una bevanda. Ma è soprattutto nella dialettica interna alla
produzione contemporanea che Altman decide di muoversi in una direzione del tutto personale:
nonostante l’ambientazione storica, l’America della Grande Depressione resta fuori dalla porta,
rievocata quasi esclusivamente da elementi esterni come i discorsi che il presidente Franklin Delano
Roosevelt rivolge a un Paese che del resto Altman tende ad annientare con i paesaggi mortuari del
Mississippi e i resti di una società rurale incapace di svilupparsi. Del genere sorto a nuova vita con
il capolavoro di Penn, infine, non c’è pressoché nulla: né sparatorie né dinamiche di gruppo, e
neanche fughe disperate o esaltanti. Come sberleffo finale Altman decide di chiudere Gang
ricorrendo a sua volta al ralenti, ma l’enfasi che il gesto di montaggio regalava a Gangster Story si
trasforma in un angosciante quadro congelato su una folla in ascesa verso il nulla e inconsapevole di
esserlo.