IL CINEMA DI GIGI PROIETTI: UN’IMPROVVISAZIONE LEVIGATA AD ARTE
di Giorgio Gosetti
Se avesse continuato a lavorare con i registi americani che lo adoravano da Sidney Lumet negli anni ’60 con “The Appointment” a Robert Altman (“Un matrimonio”) e Ted Kotcheff (“Chi sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa) dieci anni dopo, oggi avrebbe anche lui una stella sulla Walk of Fame di Hollywood. Gigi Proietti aveva tutto per farsi adottare alla Mecca del Cinema: era bello, aitante, colto ma popolare, dotato per le lingue e gli accenti, padrone di una tecnica verbale senza paragoni, caratterista senza eguali. Invece come i suoi maestri e conterranei (Sordi e Manfredi in primis) o come l’amico Vittorio Gassman soffriva la lontananza da casa e l’insicurezza del provinciale. Se Federico Fellini avesse scelto lui per il ruolo di Giacomo Casanova (per cui alla fine si dovette accontentare di doppiare Donald Sutherland) sarebbe diventato immortale. Invece dovette accontentarsi di far dire “Adrianaaa” a Sly Stallone nel corso della sua carriera parallela da doppiatore. Troppo poche volte il cinema italiano si è fidato di lui come prim’attore, felice di poter invece contare su un caratterista che ogni volta garantiva il successo. Quella maschera gli rimaneva impressa a fuoco e a lui, in fondo, piaceva così: libero di scatenarsi in scene e controscene per le quali non aveva nemmeno bisogno di un regista perché sapeva fare tutto da solo e poteva contare su un rapporto speciale con il pubblico.
Debuttò nel 1964 con una particina da poliziotto grazie a Ettore Scola in “Se permettete parliamo di donne” e due anni dopo, grazie alle prime prove televisive, si accorsero di lui a Cinecittà. Lo chiamano vecchi maestri e bravi artigiani come Alessandro Blasetti (“La ragazza del bersagliere”) e Franco Indovina (“La matriarca” con Catherine Spaak); gli dà spazio Tinto Brass con il rivoluzionario “L’urlo” (primo ruolo drammatico in carriera cui ne seguirà uno analogo in “Dropout”); lo valorizza Mario Monicelli che nel ’74 lo vuole addirittura in tre parti (Pattume, Colombino e nascosto dietro la maschera della Morte) in “Brancaleone alle crociate” (1970). Tre anni dopo ha una grande occasione con “La Tosca” di Luigi Magni in cui veste i panni di Cavaradossi. I due si erano incrociati a teatro con “I sette re di Roma” ed è un peccato che il sodalizio tra i due migliori interpreti della “romanità” non abbia avuto seguito, nonostante l’amicizia personale, per i diversi caratteri di attore e regista. In compenso negli anni ’70 Proietti si confronta con autori più “intellettuali” come Elio Petri (“La proprietà non è più un furto”) o Alberto Lattuada che in “Le farò da padre” lo conferma protagonista drammatico. Ma è grazie alla televisione, e in particolare a Ugo Gregoretti con cui aveva già lavorato nel “Circolo Pickwick, che dispiega tutto il suo talento: nel 1974, due anni prima di Kabir Bedi, sfoggia il turbante di Sandokan in un memorabile “Le tigri di Mompracem” in cui duetta con le infiammate pagine di Salgari e la cronistoria minuta delle disavventure dello scrittore. Poi sempre per la Rai diventa intrattenitore di successo nei varietà più popolari e in lavori come “Fregoli” o “Cyrano” che gli permettono di portare sul teleschermo il miglior teatro leggero di tradizione. Nel 1976, quando sembra essersi rassegnato a trovar spazio solo nel cinema di genere e soltanto Bolognini gli offre attenzione ne “L’eredità Ferramonti”, esce invece il suo film di culto: “Febbre da cavallo” di Steno col personaggio dello scommettitore sfortunato Bruno Fioretti detto Mandrake. Per i produttori sarebbe la spalla di Enrico Montesano, ma a svettare è proprio il suo personaggio che (si veda la celebre arringa in tribunale) diventa un modello attoriale, tanto da spingere Carlo Vanzina (figlio di Steno) a riproporgli il ruolo nel sequel del 2002. “Febbre da cavallo” è un titolo emblematico della carriera cinematografica di Proietti. Il film nasce, senza speciali ambizioni, come una pellicola di genere e all’uscita non viene quasi neppure recensito sui giornali: si scava invece una nicchia popolare anno dopo anno fino a diventare un modello della comicità romanesca e universale.
Dovrebbe essere il momento della svolta e invece, un po’ per miopia dei produttori, un po’per pigrizia e nostalgia del palcoscenico, si diradano gli incontri con il cinema fino a che non viene nuovamente adottato dalla famiglia Vanzina all’inizio degli anni 2000. A fare da battistrada in questa “seconda vita” sullo schermo è però proprio la televisione con il crescente e poi trionfale successo del suo “Maresciallo Rocca” inventato alla fine degli anni ’90 da Giorgio Capitani a maggior gloria dell’Arma dei Carabinieri. Quel personaggio diventerà la sua icona della maturità.
Luigi Proietti in arte Gigi ci lascia una cinquantina di film, molto spesso accettati per puro divertimento come in “Casotto” di Sergio Citti in cui viene preso a schiaffi da Catherine Deneuve (nella scena l’attrice perse l’anello di Bulgari che il produttore le aveva regalato come simbolico compenso) o come quando Bertrand Tavernier lo sceglie per il Cardinal Mazarino in “La figlia di D’Artagnan”, sorridente omaggio al cinema italiano di cappa&spada. Negli anni ha lavorato spesso con Mario Monicelli (che aveva per lui un affetto quasi paterno) e i fratelli Vanzina che lo consideravano uno di famiglia. Il suo ultimo ruolo gli si attaglia a pennello, il burbero Mangiafuoco nel “Pinocchio” di Matteo Garrone: quasi irriconoscibile dietro il pesante trucco di scena, lancia sguardi fiammeggianti e bofonchia maledizioni e blandizie, come per l’ultimo scherzo di una maschera da commedia dell’arte.
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